Uno pensa alle parole, e poi cade sui gesti. Quando sono arrivata a RaiRadio2, ad agosto del 2019, mi hanno spiegato quali fossero i codici, i segnali per dialogare con la regia dall’altra parte del vetro nei momenti in cui sei “in voce”, quindi quando stai già parlando tu al microfono non puoi premere un bottone e dire alla regista (o al regista) una cosa normalmente. Ogni direttore ha i suoi modi di farsi capire, ma quelli che ha il conduttore per farsi intendere sono piuttosto codificati. Tra questi, il gesto con cui stai comunicando al regista che il tuo discorso sta finendo e può mandare il brano in “primo piano” (quelli senza intro, che partono a schiaffo), che consiste nell’indicare con l’indice puntato (più letterale di così). Cioè tu alzi il braccio – che è già un segnale – e quando stai finendo la frase, contemporaneamente all’ultima parola, lo abbassi, indicando verso la regia.

Oh, non ci riuscivo. Mi metteva un disagio che non so spiegare. Mi sembrava così perentorio, così “potente”, da farmi sentire inadeguata. Facevo di tutto, fuorché quello. Svirgolate alla Mina, volteggi di palmi di mano. Provai a tenere in mano la penna, perché mi sembrava meno impositivo il gesto con la mia coperta di Linus in mano.
Una volta, per evitare quell’indice puntato, che nella mia testa risultava troppo assoluto, feci a due mani il segno di chiudere – quello per cui sembra che tu prenda l’aria con entrambe le mani chiudendola nei pugni, come quando dici a qualcuno “chiudi il discorso” – tipo direttore d’orchestra. La regista mi fece chiaramente capire che no, signori, così non si poteva fare.
Ora, ho lo stesso problema col tennis. Quando arriva la pallina, saggezza vorrebbe che tu la indicassi con la mano sinistra, per regolarti sulla distanza. Oh, niente. Di nuovo, mi sembra di tenere una posa poco in linea con l’agio e la confidenza che sento dentro di me rispetto al campo. Come se fosse un gesto da professionisti che io non mi posso permettere.
Mi spiegavano prima che quel modo di mettere avanti il braccio sinistro serve a due cose: primo, a non restare frontale in battuta; secondo, a “non perdere la distanza”. Il che, come diceva Edoardo, è anche un modo piuttosto singolare per indicare che la palla così te la trovi sempre addosso (costringendoti a piegare il gomito sul fianco). Quindi, in realtà, perdi la *giusta distanza* dalla pallina. Non serve che mi avventuri in metafore sulla giusta distanza dalle cose: sono evidenti.
Una cosa mi conforta. In radio adesso ci riesco, a lanciare il brano in regia. Non perché sia una prassi – quello lo è da decenni prima di me – ma perché io mi sento in confidenza con quel che faccio. So quanto voglio parlare e quanto no, so che quello è un linguaggio comune e non farlo sarebbe come sottrarsi a una conversazione nel bel mezzo del discorso.
Troverò il mio modo, anche in campo, di sentire quel discorso. Di decifrare quelle parole tra me e la pallina ed eventualmente, si spera di no, la rete. Di esercitare la giusta distanza, non per puntare il dito, ma per indicare qualcosa.

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